Biography of Cosimo I
COSIMO I de' Medici, duca di Firenze, granduca di Toscana. - Nacque a Firenze, il 12 giugno 1519, da Giovanni, detto delle Bande Nere, discendente da un ramo cadetto della famiglia Medici, e da Maria Salviati, discendente per via materna dal ramo principale di quel casato e nipote di Leone X. Trascorse buona parte della sua infanzia e lunghi periodi dell'adolescenza nella villa paterna del Trebbio, situata nel Mugello, non distante da Cafaggiuolo.
Qui con la moglie Maria Soderini ed i figli Giuliano e Lorenzo (il futuro uccisore del duca Alessandro) viveva Pierfrancesco, cugino di Giovanni ed amministratore del non vasto patrimonio comune, lasciato in fedecommesso dal nonno. Gli ultimi discendenti del ramo cadetto dei Medici possedevano ed abitavano a tratti anche un palazzo a Firenze, in via Larga; ma nella loro marcata preferenza per le dimore lontane dalla città si palesava la loro sostanziale estraneità dalla vita politica fiorentina e la loro emarginazione dalla compagine familiare.
Al Trebbio C. godette di una vita libera, ricca di esercizi all'aria aperta; praticò la caccia, l'uccellagione, la scherma, la lotta, il maneggio dei cavalli, la pesca, il nuoto; crebbe, come apparirà da adulto a Filippo Cavriana, suo biografo, "statura procera, firmis torosisque membris".
La presenza del padre, che pur è stato descritto nell'atto di trasmettere precocemente a C. il culto dell'ardimento ed il gusto dei rischio propri del mondo della milizia (avrebbe ordinato che il figlio di un anno gli fosse lanciato tra le braccia dall'alto di una finestra di palazzo Salviati a Firenze, rallegrandosi che non avesse pianto), fu in realtà assai fugace; tenuto lontano dalla famiglia dai suoi impegni di condottiero e dalla sua vita dissipata, morì il 30 dic. 1526, allorché C. aveva appena sette anni. Ben più forte fu l'impronta della madre, donna austera e profondamente religiosa, orgogliosa della propria appartenenza alla famiglia Medici, attenta alle vicende fiorentine e romane, e dispiaciuta, come essa stessa scriveva, dell'indifferenza del marito per "le cose della banda di qua", che a lei apparivano "molto più stabili" che non quelle cui Giovanni legava le proprie fortune oltre gli Appennini; preoccupata per la situazione finanziaria della famiglia, che la vita dispendiosa di Giovanni e la cattiva gestione patrimoniale del cugino avevano minato; ansiosa di trovare per i suoi benessere, sicurezza e prestigio sotto la protezione medicea.
Fin dalla prima infanzia C. condivise con la madre una vita segnata dalle difficoltà economiche e dai debiti, e la seguì nei viaggi che ella fece ripetutamente a Firenze e nel 1524 a Roma, in cerca di aiuto. A Roma fu presentato a Clemente VII, da cui Maria ottenne il pagamento dei debiti del marito, ma per il figlio soltanto carezze non impegnative.
La madre affidò l'educazione di C. al "piovano" pratese Pierfrancesco Ricci. Più tardi, quando C. lo nominerà proprio segretario ed incaricherà di trattare gli affari concernenti letterati ed artisti, il Ricci risulterà un personaggio di un certo interesse in campo culturale e religioso, vicino all'evangelismo italiano, immeritevole dei giudizi acri formulati su di lui con qualche animosità personale dal Cellini, dal Varchi e dal Vasari. Quando fu scelto come precettore era però persona modesta ed oscura, conunisurata alle ridotte possibilità della famiglia. C. ricevette da lui un'istruzione limitata al latino, ad un po' di greco, alla lettura del Petrarca come buon modello di lingua italiana; né molto di più dovette imparare dalla "radunanza de' più dotti e buoni uomini secolari e frati della città", che, secondo un biografo più tardo, Lorenzo Cantini, presiedette alla sua educazione a Firenze dopoil 1530, se nella sua maturità al Cavriana appariva "literis mediocriter imbutus".
Più importanti per la sua formazione furono le vicende stesse della sua infanzia e della sua adolescenza, trascorse sullo sfondo delle guerre d'Italia, ed investite, seppur indirettamente, dai rivolgimenti che segnarono in quegli anni la storia di Firenze. Il giorno stesso in cui ricevette ia notizia della morte del marito, Maria Salviati fece partire C. per Venezia, insieme al Ricci ed ai cugini Lorenzo e Giuliano, o non havendogli detto - narra Scipione Ammirato - cosa veruna": decisione precipitosa, accolta con acuto turbamento dal bambino e dettata probabilmente dai timori che suscitavano nella madre la minacciosa avanzata dei lanzichenecchi, sotto i cui colpi era caduto Giovanni, l'incertezza dei dominio mediceo a Firenze, ed infine la freddezza, se non addirittura l'ostilità, che Clemente VII, nel suo affetto esclusivo per i nipoti illegittimi Alessandro ed Ippolito, manifestava per i discendenti legittimi del ramo cadetto dei Medici. A Venezia C. fu accolto con la simpatia e gli onori dovuti al figlio del defunto capitano generale della Repubblica: festeggiato dalle più eminenti famiglie patrizie, ricevuto dal doge, solennemente introdotto presso il Consiglio dei dieci. Nel maggio del 1527 i giovani Medici furono raggiunti dalle madri, e poco più tardi dalla nonna Lucrezia, indotte a fuggire a loro volta da Firenze dalla restaurazione della Repubblica; ma ben presto il peggioramento dei rapporti tra Venezia e Clemente VII costrinse tutto il gruppo ad una nuova avventurosa fuga. Mentre Lucrezia riparava ad Imola, C. e la madre ritornavano al Trebbio. Di qui dovettero allontanarsi ancora una volta nel 1529, in seguito allo sconfinamento di alcune bande bolognesi ed alla spedizione diretta contro di queste per conto della Repubblica da Otto di Montauto, gravida di pericoli per chiunque portasse il nome dei Medici. Questa volta la meta fu prima Bologna, dove C. ebbe occasione di assistere all'incoronazione di Carlo V e di incontrare Clemente VII ed i cugini Ippolito ed Alessandro, poi Roma.
La restaurazione del dominio medicco a Firenze nel 1530 segnò anche per C. tempi più sereni. Incluso, seppur in posizione remota, tra i successori di Alessandro dal diploma imperiale che nominava quest'ultimo duca di Firenze (maggio 1530, C. alternò da allora i soggiorni al Trebbio con quelli alla corte ducale. Nel 1532 seguì Alessandro a Bologna, dove questi incontrò Carlo V, e scortò poi con lui l'imperatore fino a Genova. Nel 1536 ebbe modo di assistere allo scontro che si svolse a Napoli davanti a Carlo V tra il duca e gli ambasciatori inviati dai fuorusciti a denunciarne il malgoverno, ed al trionfo politico del primo, unito allora in matrimonio alla figlia illegittima dell'imperatore, Margherita d'Austria. Nel 1536 a Genova fu presente ad un altro incontro tra l'imperatore ed il genero.
Testimone di eventi importanti, C. fu tuttavia cortigiano appartato ed oscuro; superato di gran lunga nel favore del duca dal cugino maggiore Lorenzo; dal papa considerato con perdurante diffidenza e richiamato all'osservanza della sua condizione subalterna. Così l'orgoglioso ricordo delle proprie origini diverse ed il nebuloso disegno di ricostruire intorno a sé le milizie paterne, che C. manifestava, a quanto racconta Scipione Ammirato, con il vestire e procedere o in tutte le sue azioni da cavaliere" e con il tenere "continuamente appresso di sè molti soldati et capitani del padre" - dovettero cedere all'ordine di Clemente VII di "lasciar quelle usanze forastiere et volgari e vestir l'abito civile che gli altri cittadini della sua patria costumavano". Soltanto dopo la morte del pontefice C. poté abbandonare l'umiliante "lucco" per la cappa e la spada.
La mediocrità della sua posizione si rifletteva anche nell'incertezza delle prospettive che sembravano aprirsi per il suo futuro e nelle difficoltà che incontravano i progetti. pur relativamente modesti, accarezzati per lui dalla madre.
Così il disegno di matrimonio con Maddalena Sanseverino, figlia di Maddalena Cibo e del defunto conte di Caiazzo ed erede del feudo materno, perseguito da Maria e dallo stesso giovanissimo C. durante il suo soggiorno a Bologna nel 1532, non si realizzò, per le resistenze della Cibo e la mancanza di pressioni adeguate da parte dei Medici e dei Saiviati. Non più fortunato C. fu nei confronti di Elisabetta Guicciardini, agli occhi dei cui padre, Francesco, egli appariva pretendente scarsamente qualificato, a causa della sua sisituazione patrimoniale. Solo negli ultimi anni del principato di Alessandro, infatti, C. riuscì a superare le difficoltà finanziarie che avevano pesato sulla sua infanzia e la sua adolescenza, grazie alla conclusione favorevole di una causa in corso da tempo contro i cugini Lorenzo e Giuliano per la divisione dei patrimonio comune.
L'assassinio di Alessandro ad opera di Lorenzo de' Medici (detto Lorenzino), avvenuto il 6 genn. 1537, aprì a C. orizzonti del tutto imprevisti. Poiché il duca non lasciava discendenza maschile legittima e Lorenzino ed il fratello Giuliano decadevano ovviamente dal loro diritto, la sua designazione alla successione scaturiva dallo stesso diploma imperiale del 1531. Essa però non fu automatica né incontrastata. Costituì invece lo sbocco di una crisi breve ma acuta che, se non mise immediatamente in questione la sopravvivenza del principato, investì per certo i rapporti che si erano instaurati al suo interno.
La restaurazione di un governo repubblicano popolare, pur vagheggiata dagli ultimi seguaci del Savonarola ed agitata in conventicole di piazza, fu forse sogno per gli uni e spauracchio per gli altri assai più che non possibilità reale, "non havendo il popolo - scriverà G. B. Adriani - nè armi nè guida nè aiuto". Tra gli ottimati rimasti a Firenze anche dopo che il carattere "tirannico" del principato di Alessandro si era fatto palese, le correnti antimedicee erano d'altra parte nettamente minoritarie, e dalle riunioni tenute in casa dello zio dello stesso C., il repubblicano Alamanno Salviati, emerse un attendismo rassegnato. Inoltre, prima ancora che si diffondesse la notizia dell'assassinio (tenuta accuratamente segreta per parecchie ore), i consiglieri ducali avevano fatto affluire a Firenze le milizie fedeli ai Medici e si erano assicurati l'appoggio del loro comandante generale, Alessandro Vitelli, garantendosi così gli strumenti per far fronte ad eventuali disordini. Tuttavia l'esistenza di forti nuclei di fuorusciti fiorentini a Roma, Venezia, Bologna ed altrove; la ripresa fin dalla primavera del 1536 della guerra tra Francia e Spagna e le minacce che tornavano quindi a gravare sulla stabilità dell'area di influenza spagnola in Italia; l'ostilità del pontefice Paolo III Farnese verso i Medici, la sua aspirazione a creare uno Stato farnesiano nell'Italia centrale e la politica di neutralità attiva tra le grandi potenze da lui perseguita aggravavano la pericolosità del momento.
In questo quadro la successione fu al centro di un conflitto sotterraneo ma aspro. Da un lato il gruppo dei consiglieri del duca defunto, guidati dal "forestiero" cardinale Innocenzo Cibo, parente dei Medici ed uomo di fiducia di Carlo V, mirava all'elezione di Giulio, figlio illegittimo treenne di Alessandro, ed alla concessione della tutela al cardinale stesso: la direzione della vita politica fiorentina sarebbe così passata nelle mani di uomini di corte ed alti funzionari estranei al contesto cittadino, fautori di una linea di stretta osservanza imperiale e di rigido accentramento. Dall'altro, intorno a Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Matteo Strozzi, Roberto Acciaiuoli, gli ottimati fiorentini filomedicei, dopo breve sconcerto iniziale, si schierarono per Cosimo.
Ai loro occhi l'attuazione delle disposizioni imperiali appariva come l'unica alternativa possibile al disegno del Cibo, ed il governo diretto di un Medici come realistica condizione per una maggior autonomia di Firenze. Essi confidavano inoltre che l'inesperienza giovanile di C., la sua parziale estraneità agli ambienti di corte, i legami di parentela ed amicizia che egli aveva con alcuni dei "grandi", il peso stesso dell'appoggio dato alla sua elezione consentissero loro di recuperare lo spazio politico perduto negli anni precedenti e di realizzare quel principato temperato, condizionato dall'oligarchia cittadina, cui avevano vanamente aspirato dopo il 1530.
Nel clima di timore che il vuoto di potere provocato dalla morte di Alessandro suscitava in entrambi i gruppi, gli eventì si succedettero con estrema rapidità. Dopo che l'8 gennaio una prima seduta del Senato dei Quarantotto, supremo organo del governo cittadino, si era conclusa con un nienie di fatto, i capi ottimati, tramite Maria Salviati, mandavano a chiamare C., che si trovava al Trebbio. Questi nel frattempo, avuta notizia dell'assassinio di Alessandro, si era spontaneamente messo in viaggio per Firenze. Giunto in città, si recava immediatamente dal Cibo, e, pur senza porre esplicitamente la propria candidatura, gli offriva con reverenza "quegli aiuti che i bisogni della patria richiedessero". La presenza del giovane Medici, sostenuto dagli ottimati, da "ragunate d'affezionati e partigiani" e da spontanee manifestazioni della milizia, creava una situazione di fatto da cui era impossibile prescindere. Così il 9 genn. 1537, in una città percorsa da inquietudine, dove - scriverà il Varchi - "si vedeva preso e guardato da soldati non solo il Palazzo, ma i canti e tutte le bocche della via Larga", il Senato lo designò alla successione. La proposta fu avanzata dallo stesso Cibo, (con il quale C. si era impegnato a mantenersi fedele all'imperatore, a tutelare la vedova ed il figlio di Alessandro ed a perseguirne l'uccisore) e fu sostenuta da Francesco Vettori. Pochissime furono le voci dissenzienti.
Gli agiografi ducali hanno spesso esaltato la precoce fermezza politica di C. e la rapidità con cui seppe imporre la propria autorità a Firenze. La realtà però appare più sfumata. Agli inizi la sua posizione fu fragile, minata dall'esterno dal pericolo costituito dai fuorusciti, dall'ostilità dei Francesi e del papa, nonché dalla diffidenza dello stesso Carlo V; condizionata internamente dall'azione dei gruppi eterogenei che avevano concorso all'elezione: ad un osservatore avvertito come Filippo de' Nerli sembrava che C. fosse "stato fatto signore come si fanno i signori delle compagnie di Carnovaleo e che il suo governo procedesse "in su trespoli".
Il 10 gennaio, dando forma ufficiale alle condizioni poste a C. all'atto dell'elezione, il Senato deliberava che egli non avesse il titolo di duca, ma solo quello di "capo e primario della città"; che, diversamente da Alessandro, dovesse scegliere il proprio luogotenente tra gli stessi membri del Senato; che il suo appannaggio non superasse i 12.000 scudi annui. Era il fragile tentativo di limitarne per via legale i poteri, a favore dell'oligarchia cittadina. Questa inoltre gli affiancò non solo il Consiglio a rotazione, già previsto dalla costituzione del 1532 (il Magistrato supremo), ma anche un Consiglio segreto, composto da ottimati di grande autorità, come Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Roberto Acciaiuoli, Matteo Niccolini e Matteo Strozzi, che avrebbe dovuto guidarne le operazioni.
La notte tra il 9 e il 10 Alessandro Vitelli, d'altra parte, aveva occupato con un colpo di mano la Fortezza da basso, dichiarando di tenerla a nome di Carlo V e dello stesso C., purché questi restasse fedele all'imperatore: simbolo della tutela imperiale, la fortezza diventò anche base del potere personale del Vitelli, nonché del Cibo, che vi si rifugiò: un potere imposto con arroganza al giovane principe, ed ambiguamente renitente alle stesse direttive imperiali. Un'azione analoga fu condotta poco dopo anche a Livorno. Contemporaneamente confluivano in Toscana da Lerici 1.500 soldati spagnoli, sotto il comando di Francesco Sarmiento, mentre il marchese del Vasto, comandante delle forze imperiali nell'Italia settgntrionale, inviava a Firenze il capitano Pirro Colonna, con il compito di dirigere eventuali operazioni militari.
D'altro lato, benché C. non esitasse a dichiarare di voler "riposare nell'ombra dell'imperatore", e già il 12 gennaio gli inviasse un'ambasciata per chiedergli la concessione del titolo ducale nonché la mano della duchessa vedova Margherita d'Austria in segno della sua protezione, Carlo V, come rivelano i documenti conservati a Simancas, esitò a lungo tra l'opportunità di riconoscere il nuovo principato e quella di restaurare la repubblica, per sottrarre i fuorusciti fiorentini all'influenza francese.
Ancora nel maggio il conte di Cifuentes, inviato come ambasciatore imperiale a Firenze, aveva in realtà l'incarico segreto di valutare la situazione e giudicare se non fosse il caso di ridimensionare il potere di C.; e quando gli riconobbe, sia pure con una formula ambigua e con riserva dell'approvazione imperiale, la stessa autorità di cui aveva goduto Alessandro, lo fece in deroga alle istruzioni ricevute. Al tempo stesso, sulla base di una convenzione stipulata con Alessandro nel 1536, egli costringeva C. a cedere ufficialmente a Carlo V le fortezze di Firenze e Livorno, lasciandogli solo quella meno rilevante di Pisa.
Se al disegno dei fuorusciti di piegare la costituzione fiorentina in senso repubblicano ed alle loro propensioni filofrancesi C. oppose sempre con fermezza il proprio attaccamento al potere che gli era stato accordato e la propria lealtà verso l'imperatore, non è però facile individuare una sua linea politica personale nei loro confronti: con qualche ragione lo zio, il cardinale repubblicano Iacopo Salviati, gli rinfacciava a questo proposito di "dependere in tutto da altri".
In effetti nei tentativi iniziali di conciliazione verso Filippo Strozzi e verso i cardinali Salviati, Ridolfi, Gaddi durante il loro viaggio a Firenze, nello stesso indulto pubblicato il 30 gennaio in nome di C. traspaiono piuttosto le pressioni dell'oligarchia cittadina, legata ai fuorusciti da affinità politiche e spesso da vincoli di amicizia e di famiglia; mentre nelle resistenze opposte con qualche successo a questi tentativi emergono l'ostilità e la volontà di rottura, diversamente accentuate, degli esponenti imperiali a Firenze ed in Italia. Pochi mesi più tardi la mediazione condotta (in verità con scarso impegno e scarsi risultati) dal conte di Cifuentes, e l'ernanazione di un secondo indulto obbedivano alle disposizioni dello stesso Carlo V, incline ad una politica che precludesse ogni possibilità di intervento ai Francesi ed incontrasse l'approvazione del papa. Quando infine, nel luglio, i fuorusciti, rotti i lunghi indugi, con l'appoggio dei Francesi, la partecipazione militare di Piero Strozzi ed il decisivo concorso finanziario di Filippo, organizzarono una spedizione contro Firenze e penetrarono disordinatamente entro i confini dello Stato, la rapida azione militare condotta vittoriosamente contro di essi il 1º agosto a Montemurlo fu coordinata e diretta da Alessandro Vitelli. Da lui fu anche voluto, o almeno consentito, il massacro delle bande della fazione dei Cancellieri, che nel Pistoiese avevano appoggiato l'impresa degli esuli: sconfitte nello stesso giorno dalle truppe fiorentine, ed abbandonate, con i loro capi, alla ferocia della fazione avversa dei Panciatichi.
Allo scarso rilievo personale assunto da C. nella questione dei fuorusciti fa però riscontro il vigore con cui egli affrontò i problemi del governo interno, acquistando rapidamente autorità sulle magistrature cittadine ed assurgendo a fermo punto di riferimento per la rete dei commissari e dei rettori incaricati di reggere lo Stato e far fronte ai disordini ed alle lotte di'fazione che si intrecciarono pericolosamente alle vicende degli esuli non solo nel Pistoiese, ma anche nella Romagna fiorentina, a Borgo San Sepolcro, Anghiari. Così a chi, come gli oratori senesi residenti a Firenze, lo considerava entro il quadro della vita cittadina, C. ben sembrò essere e far "tutto" e sostituirsi di fatto agli organi costituzionali. In ciò fu sostenuto dalla madre, e soprattutto da un gruppo di abili e fedeli collaboratori, provenienti dal servizio privato di Maria Salviati, come il Ricci, o maturati già al servizio di Alessandro, se non addirittura di Lorenzo duca di Urbino e di Clemente VII., come Francesco Campana da Colle, Ugolino Griffoni da San Miniato, il giurista Lelio Torelli da Fano, Agnolo Marzi Medici, vescovo di Assisi. In questi uomini, talvolta di estrazione fiorentina ed aristocratica, ma più spesso originari di centri minori dello Stato o addirittura forestieri, ed in ogni caso personalmente legati al nuovo principe, che ne aveva promosso o mantenuto la fortuna, C., in qualche misura erede di tradizioni famigliari, trovò un contrappeso al Consiglio segreto posto al suo fianco dagli ottimati, uno strumento personale di governo e in un primo tempo probabilmente una guida.
Il colpo inferto a Montemurlo ai fuorusciti (i cui capi, fatti prigionieri da Alessandro Vitelli, furono consegnati a C. ad eccezione del più ricco e prestigioso di essi, Filippo Strozzi, e nel giro di un mese furono processatì ed in buona parte giustiziati) non dileguò le minacce e le incertezze che gravavano sul principato. Gli esuli superstiti, tra ì quali vì era Piero Strozzi, tentarono a più riprese di ricostituire un esercito con l'appoggio francese nella vicina base della Mirandola. Paolo III d'altro lato non abbandonò le proprie aspirazioni ad uno Stato farnesiano; né il campo imperiale offriva a C. un appoggio chiaro e concorde: ancora alla fine del 1539 circolavano voci inquietanti sulla possibilità che Carlo V trasferisse il ducato nelle mani dei Farnese per agevolare il proprio riavvicinamento al Papato. Dopo Montemurlo tuttavia si aprì a C. uno spazio di manovra di cui seppe avvalersi con abilità, da un lato rafforzando con tenacia, seppur gradualmente, il proprio potere interno, dall'altro impegnandosi nel difficile compito di consolidare la propria posizione internazionale e conquistare una più concreta autonomia nell'ambito del sistema spagnolo.
Già alla fine dell'estate del 1537 C. si proponeva di regolare in modo più favorevole i propri rapporti con Carlo V e gli inviava una legazione diretta da Averardo Serristori, con il compito di chiedere il riconoscimento della propria successione ad Alessandro ed il titolo ducale; la consegna di Filippo Strozzi, che il Vitelli deteneva nella Fortezza da basso ed intorno alla cui sorte si esercitavano numerose contrastanti pressioni; la restituzione delle fortezze, a garanzia dell'indipendenza reale dello Stato di Firenze; infine, ancora una volta, la mano di Margherita d'Austria. Carlo V, sia pure con qualche ritardo, rispose positivamente alla prima richiesta, adeguandosi del resto agli impegni provvisoriamente assunti dal Cifuentes; ed il 30 settembre emanò un privilegio imperiale che legittimava la successione di C. e gli attribuiva il titolo di duca di Firenze; ma sugli altri punti fece solo vaghe promesse. Tuttavia nella primavera del 1538, durante il convegno che ebbe luogo a Nizza tra l'imperatore, il pontefice e Francesco I, e che sfociò nella stipulazione di una tregua decennale tra Francia e Spagna, i rappresentanti di C. I ottennero alcune concessioni ulteriori: Carlo V ribadi la propria intenzione di conservare le fortezze e rifiutò delimitivamente a C. I la mano di Margherita d'Austria, di cui pochi mesi più tardi sarebbero state celebrate le nozze con uno dei più fieri avversari del duca, Ottavio Farnese; ma si impegnò a trovarglì un'altra soluzione matrimoniale conveniente; gli accordò il ridimensionamento delle guarnigioni spagnole, il cui costo gravava sulle esangui finanze fiorentine, e l'allontanamento da Firenze dell'inviso Alessandro Vitelli, che sarebbe stato sostituito con un capitano spagnolo; gli prornise infine la testa di Filippo Strozzi.
Se la lotta tenace che questi aveva intrapreso per la propria salvezza e gli appoggi di cui ancora godeva a corte e tra gli esponenti spagnoli in Italia valsero a ritardare ancora di alcuni mesi la conclusione della vicenda, alla fine dell'anno fu effettivamente emanato l'ordine di ronsegna a C. I, cui conseguì, il 18 dicembre, il suicidio del prigioniero.
Nel frattempo C. I, che aveva rifiutato la mano di Vittoria Farnese, insistentemente offertagli dal papa, si impegnava, tramite il proprio ambasciatore presso Carlo V, nella ricerca di una sposa "bella nobile ricca et giovine" e di parte spagnola; ed il 29 luglio 1539, sotto gli auspici dell'imperatore, si univa in matrimonio con Eleonora, figlia di don Pietro di Toledo, viceré di Napoli e fratello del duca d'Alba.
Il parentado così concluso, pur inferiore a quello cui egli aveva inizialmente aspirato, rafforzava senza dubblo la sua posizione, garantendogli l'appoggio attivo di una delle più potenti consorterie spagnole. Con gli Alba-Toledo egli avrebbe però condiviso negli anni successivi non solo amici e consiglieri (alcuni dei quali avrebbero costituito il seguito stabile ed autorevole di Eleonora a Firenze), ma anche gli avversari che essi contavano a corte ed in Italia, quali il marchese del Vasto o l'ambasciatore imperiale a Roma, il marchese d'Aguilar. Le trattative precedenti le nozze furono ovviamente dominate da considerazioni politiche e finanziarie: in esse tuttavia trovò qualche spazio anche la scelta personale del giovane C. I, irremovibile nel preferire alla primogenita Isabella, brutta e "di cervello il ludibrio di Napoli", la più giovane, aggraziata e saggia Eleonora. A lei C. I restò sempre legato da stima ed affetto profondi; e con lei visse, come scriveva il suo protomedico e biografo Baccio Baldini, "con molto riposo et piacere, lietamente molt'anni". Il loro matrimonio fu coronato, tra il 1540 ed il 1554, dalla nascita di cinque figli maschi e tre femmine.
Con l'acquisita maturità ed il consolidarsi della sua posizione internazionale, C. I veniva anche liberandosi gradualmente, come scriverà un altro dei suoi biografi cinquecenteschi, il Cini, "da balii et da tutori che come fanciullo et pupillo facevano professione di governarlo". Il potere degli ottimati, già incrinato dal fallimento dei loro disegni di conciliazione con i fuorusciti, dopo la sconfitta di questi subì una degradazione naturale: la sopravvivenza, peraltro lunga, del Consiglio segreto fu un puro fatto di forma, ed anche Francesco Guicciardini, forse il più autorevole fra i consiglieri, provò la tristezza dell'emarginazione.
Più difficile fu liberarsi di coloro che esercitavano un'autorità in ragione di un rapporto privilegiato con gli Imperiali: alla fine dei 1537 Alessandro Vitelli, ad esempio, non esitava a far comunicare arrogantemente dal proprio inviato personale presso Carlo V ai legati di C. I, di essere ben disposto a non "disunirsi" da lui, purché egli "per essere giovine o mai consigliato da qualcuno." non facesse "cose da irritarlo o provocarlo". Ma, come si è visto, C. I, nella primavera del 1538 ne ottenne da Carlo V l'allontanamento. Tra il 1539 ed il 1540 riuscì a mettere in disparte anche il Cibo, denunciando con durezza a Carlo V l'indiscrezione di cui egli aveva dato prova, gli intrighi che aveva intessuto a Roma con i ministri imperiali, le insinuazioni calunniose che aveva diffuso a proposito di un piano dello stesso C. I per avvelenare il figlioletto illegittimo di Alessandro. Ridotto a non scambiar con il duca "se non buon di, buona notte e basta", il Cibo si ritirò infine volontariamente a Massa nel maggio 1540. Un anno più tardi, C. I esautorava anche Pirro Colonna, adducendo a pretesto il suo contegno arrogante nei confronti del nano di corte.
Erano, per il duca di Firenze, passi necessari non solo per l'affermazione di principio della propria sovranità, ma anche verso quell'esercizio diretto, personale del potere che caratterizzò il suo stile di governo. Senza modificare la costituzione del 1532, che, a garanzia dei diritti dell'aristocrazia fiorentina, prevedeva il funzionamento di tre Consigli (il Consiglio dei duecento, il Senato dei quarantotto ed il Magistrato supremo) ed attribuiva alle tradizionali magistrature cittadine un ruole, specifico e sostanzialmente autonomo, e prima ancora di creare a supporto della propria azione nuove figure istituzionalizzate di ministri, C. I mirò ad accentrare nelle proprie mani non solo il potere legislativo, come aveva già fatto Alessandro, ma anche l'amministrazione ordinaria: richiese relazioni minuziose sugli affari di polizia, intervenne nelle cause civili e penali, instaurò l'uso di rispondere personalmente alle suppliche dei sudditi. La sua volontà di conoscenza diretta del dominio ed al tempo stesso una nuova pratica di governo, attenta non solo ai problemi della città dominante, ma a quelli delle Comunità soggette, si manifestarono anche nella consuetudine precoce dei viaggi: tra il 1539 ed il 1543 C. I fu ripetutamente a Pisa, dove diede avvio ai primi provvedimenti per il risanamento della pianura; a Pietrasanta, per porre le basi dello sfruttamento minerario della zona; ad Arezzo, per sorvegliare la costruzione della fortezza, nel Casentino, in Valdelsa, a Borgo San Sepolcro.
Nel dominio C. I perseguì con durezza la repressione delle lotte di fazione: a Pistoia in particolare giunse a sospendere gli uffici pubblici cittadini (dal 1538 al 1546) ed a sottrarre all'oligarchia locale l'amministrazione delle entrate, delegando al governo della città commissari e provveditori fiorentini. Negli stessi anni la moltiplicazione delle "bande", ossia delle milizie locali soggette a servizio in caso di necessità e dotate di ampi privilegi fiscali, giurisdizionali, amministrativi che erano state costituite da Alessandro, veniva offrendo a C. I non solo un serbatoio di truppe fedeli, ma anche una rete di supporto capillarmente diffusa nel territorio. Anche le fortezze di cui tra il 1539 ed il 1540 si intraprese il restauro o la costruzione a San Miniato, Arezzo, Pistoia, Prato, Firenze, Fivizzano furono concepite come deterrente interno oltre che strumento di difesa militare.
Del carattere innovativo della sua politica nel dominio C. I fu orgogliosamente consapevole. Nel 1540, scrivendo a Carlo V, a prova della propria capacità di governo e ferma volontà di "perpetuare nello Stato" adduceva in primo luogo i risultati conseguiti nelle "cose di fuora del dominio": il compimento della fortezza di Arezzo, interrotta da Alessandro a lavori appena iniziati; la restaurazione dell'ordine a Pistoia, mentre prima di luì si era sempre ritenuto che "la divisione et discordie di quella città" fossero essenziali al mantenimento dei governo fiorentino.
L'intento di affermare la pienezza delle proprie prerogative sovrane, e quindi la giurisdizione dello Stato, si manifestò anche nella politica seguita da C. I in materia di rapporti tra Stato e Chiesa durante i primi anni del suo principato, con la collaborazione, se non addirittura la guida, di personaggi come Lelio Torelli, Francesco Campana e lo stesso Ricci, ostili alla politica curiale. In primo luogo in questa luce vanno considerati la resistenza opposta tra il 1537 ed il 1540 all'esazione delle decime ecclesiastiche nel ducato; la lunga (ed infine vittoriosa) controversia con il papa per l'attribuzione del lauto beneficio ecclesiastico dell'ospedale di Altopascio; l'istituzione, fin dal 1539, di forme di controllo sull'attribuzione dei benefici da parte dei rettori civili; l'imprigionamento qualche anno più tardi (1545) di venti domenicani di S. Marco, troppo vivacemente memori della tradizione savonaroliana, e l'espulsione dell'Ordine dal convento fiorentino.
Palazzo Pitti: L’arte e la storia, Marco Chiarini, Nardine Editore, 2000-2003.
“Le vicende costruttive”, Fiorella Facchinetti, pp. 24 ff.
Qui con la moglie Maria Soderini ed i figli Giuliano e Lorenzo (il futuro uccisore del duca Alessandro) viveva Pierfrancesco, cugino di Giovanni ed amministratore del non vasto patrimonio comune, lasciato in fedecommesso dal nonno. Gli ultimi discendenti del ramo cadetto dei Medici possedevano ed abitavano a tratti anche un palazzo a Firenze, in via Larga; ma nella loro marcata preferenza per le dimore lontane dalla città si palesava la loro sostanziale estraneità dalla vita politica fiorentina e la loro emarginazione dalla compagine familiare.
Al Trebbio C. godette di una vita libera, ricca di esercizi all'aria aperta; praticò la caccia, l'uccellagione, la scherma, la lotta, il maneggio dei cavalli, la pesca, il nuoto; crebbe, come apparirà da adulto a Filippo Cavriana, suo biografo, "statura procera, firmis torosisque membris".
La presenza del padre, che pur è stato descritto nell'atto di trasmettere precocemente a C. il culto dell'ardimento ed il gusto dei rischio propri del mondo della milizia (avrebbe ordinato che il figlio di un anno gli fosse lanciato tra le braccia dall'alto di una finestra di palazzo Salviati a Firenze, rallegrandosi che non avesse pianto), fu in realtà assai fugace; tenuto lontano dalla famiglia dai suoi impegni di condottiero e dalla sua vita dissipata, morì il 30 dic. 1526, allorché C. aveva appena sette anni. Ben più forte fu l'impronta della madre, donna austera e profondamente religiosa, orgogliosa della propria appartenenza alla famiglia Medici, attenta alle vicende fiorentine e romane, e dispiaciuta, come essa stessa scriveva, dell'indifferenza del marito per "le cose della banda di qua", che a lei apparivano "molto più stabili" che non quelle cui Giovanni legava le proprie fortune oltre gli Appennini; preoccupata per la situazione finanziaria della famiglia, che la vita dispendiosa di Giovanni e la cattiva gestione patrimoniale del cugino avevano minato; ansiosa di trovare per i suoi benessere, sicurezza e prestigio sotto la protezione medicea.
Fin dalla prima infanzia C. condivise con la madre una vita segnata dalle difficoltà economiche e dai debiti, e la seguì nei viaggi che ella fece ripetutamente a Firenze e nel 1524 a Roma, in cerca di aiuto. A Roma fu presentato a Clemente VII, da cui Maria ottenne il pagamento dei debiti del marito, ma per il figlio soltanto carezze non impegnative.
La madre affidò l'educazione di C. al "piovano" pratese Pierfrancesco Ricci. Più tardi, quando C. lo nominerà proprio segretario ed incaricherà di trattare gli affari concernenti letterati ed artisti, il Ricci risulterà un personaggio di un certo interesse in campo culturale e religioso, vicino all'evangelismo italiano, immeritevole dei giudizi acri formulati su di lui con qualche animosità personale dal Cellini, dal Varchi e dal Vasari. Quando fu scelto come precettore era però persona modesta ed oscura, conunisurata alle ridotte possibilità della famiglia. C. ricevette da lui un'istruzione limitata al latino, ad un po' di greco, alla lettura del Petrarca come buon modello di lingua italiana; né molto di più dovette imparare dalla "radunanza de' più dotti e buoni uomini secolari e frati della città", che, secondo un biografo più tardo, Lorenzo Cantini, presiedette alla sua educazione a Firenze dopoil 1530, se nella sua maturità al Cavriana appariva "literis mediocriter imbutus".
Più importanti per la sua formazione furono le vicende stesse della sua infanzia e della sua adolescenza, trascorse sullo sfondo delle guerre d'Italia, ed investite, seppur indirettamente, dai rivolgimenti che segnarono in quegli anni la storia di Firenze. Il giorno stesso in cui ricevette ia notizia della morte del marito, Maria Salviati fece partire C. per Venezia, insieme al Ricci ed ai cugini Lorenzo e Giuliano, o non havendogli detto - narra Scipione Ammirato - cosa veruna": decisione precipitosa, accolta con acuto turbamento dal bambino e dettata probabilmente dai timori che suscitavano nella madre la minacciosa avanzata dei lanzichenecchi, sotto i cui colpi era caduto Giovanni, l'incertezza dei dominio mediceo a Firenze, ed infine la freddezza, se non addirittura l'ostilità, che Clemente VII, nel suo affetto esclusivo per i nipoti illegittimi Alessandro ed Ippolito, manifestava per i discendenti legittimi del ramo cadetto dei Medici. A Venezia C. fu accolto con la simpatia e gli onori dovuti al figlio del defunto capitano generale della Repubblica: festeggiato dalle più eminenti famiglie patrizie, ricevuto dal doge, solennemente introdotto presso il Consiglio dei dieci. Nel maggio del 1527 i giovani Medici furono raggiunti dalle madri, e poco più tardi dalla nonna Lucrezia, indotte a fuggire a loro volta da Firenze dalla restaurazione della Repubblica; ma ben presto il peggioramento dei rapporti tra Venezia e Clemente VII costrinse tutto il gruppo ad una nuova avventurosa fuga. Mentre Lucrezia riparava ad Imola, C. e la madre ritornavano al Trebbio. Di qui dovettero allontanarsi ancora una volta nel 1529, in seguito allo sconfinamento di alcune bande bolognesi ed alla spedizione diretta contro di queste per conto della Repubblica da Otto di Montauto, gravida di pericoli per chiunque portasse il nome dei Medici. Questa volta la meta fu prima Bologna, dove C. ebbe occasione di assistere all'incoronazione di Carlo V e di incontrare Clemente VII ed i cugini Ippolito ed Alessandro, poi Roma.
La restaurazione del dominio medicco a Firenze nel 1530 segnò anche per C. tempi più sereni. Incluso, seppur in posizione remota, tra i successori di Alessandro dal diploma imperiale che nominava quest'ultimo duca di Firenze (maggio 1530, C. alternò da allora i soggiorni al Trebbio con quelli alla corte ducale. Nel 1532 seguì Alessandro a Bologna, dove questi incontrò Carlo V, e scortò poi con lui l'imperatore fino a Genova. Nel 1536 ebbe modo di assistere allo scontro che si svolse a Napoli davanti a Carlo V tra il duca e gli ambasciatori inviati dai fuorusciti a denunciarne il malgoverno, ed al trionfo politico del primo, unito allora in matrimonio alla figlia illegittima dell'imperatore, Margherita d'Austria. Nel 1536 a Genova fu presente ad un altro incontro tra l'imperatore ed il genero.
Testimone di eventi importanti, C. fu tuttavia cortigiano appartato ed oscuro; superato di gran lunga nel favore del duca dal cugino maggiore Lorenzo; dal papa considerato con perdurante diffidenza e richiamato all'osservanza della sua condizione subalterna. Così l'orgoglioso ricordo delle proprie origini diverse ed il nebuloso disegno di ricostruire intorno a sé le milizie paterne, che C. manifestava, a quanto racconta Scipione Ammirato, con il vestire e procedere o in tutte le sue azioni da cavaliere" e con il tenere "continuamente appresso di sè molti soldati et capitani del padre" - dovettero cedere all'ordine di Clemente VII di "lasciar quelle usanze forastiere et volgari e vestir l'abito civile che gli altri cittadini della sua patria costumavano". Soltanto dopo la morte del pontefice C. poté abbandonare l'umiliante "lucco" per la cappa e la spada.
La mediocrità della sua posizione si rifletteva anche nell'incertezza delle prospettive che sembravano aprirsi per il suo futuro e nelle difficoltà che incontravano i progetti. pur relativamente modesti, accarezzati per lui dalla madre.
Così il disegno di matrimonio con Maddalena Sanseverino, figlia di Maddalena Cibo e del defunto conte di Caiazzo ed erede del feudo materno, perseguito da Maria e dallo stesso giovanissimo C. durante il suo soggiorno a Bologna nel 1532, non si realizzò, per le resistenze della Cibo e la mancanza di pressioni adeguate da parte dei Medici e dei Saiviati. Non più fortunato C. fu nei confronti di Elisabetta Guicciardini, agli occhi dei cui padre, Francesco, egli appariva pretendente scarsamente qualificato, a causa della sua sisituazione patrimoniale. Solo negli ultimi anni del principato di Alessandro, infatti, C. riuscì a superare le difficoltà finanziarie che avevano pesato sulla sua infanzia e la sua adolescenza, grazie alla conclusione favorevole di una causa in corso da tempo contro i cugini Lorenzo e Giuliano per la divisione dei patrimonio comune.
L'assassinio di Alessandro ad opera di Lorenzo de' Medici (detto Lorenzino), avvenuto il 6 genn. 1537, aprì a C. orizzonti del tutto imprevisti. Poiché il duca non lasciava discendenza maschile legittima e Lorenzino ed il fratello Giuliano decadevano ovviamente dal loro diritto, la sua designazione alla successione scaturiva dallo stesso diploma imperiale del 1531. Essa però non fu automatica né incontrastata. Costituì invece lo sbocco di una crisi breve ma acuta che, se non mise immediatamente in questione la sopravvivenza del principato, investì per certo i rapporti che si erano instaurati al suo interno.
La restaurazione di un governo repubblicano popolare, pur vagheggiata dagli ultimi seguaci del Savonarola ed agitata in conventicole di piazza, fu forse sogno per gli uni e spauracchio per gli altri assai più che non possibilità reale, "non havendo il popolo - scriverà G. B. Adriani - nè armi nè guida nè aiuto". Tra gli ottimati rimasti a Firenze anche dopo che il carattere "tirannico" del principato di Alessandro si era fatto palese, le correnti antimedicee erano d'altra parte nettamente minoritarie, e dalle riunioni tenute in casa dello zio dello stesso C., il repubblicano Alamanno Salviati, emerse un attendismo rassegnato. Inoltre, prima ancora che si diffondesse la notizia dell'assassinio (tenuta accuratamente segreta per parecchie ore), i consiglieri ducali avevano fatto affluire a Firenze le milizie fedeli ai Medici e si erano assicurati l'appoggio del loro comandante generale, Alessandro Vitelli, garantendosi così gli strumenti per far fronte ad eventuali disordini. Tuttavia l'esistenza di forti nuclei di fuorusciti fiorentini a Roma, Venezia, Bologna ed altrove; la ripresa fin dalla primavera del 1536 della guerra tra Francia e Spagna e le minacce che tornavano quindi a gravare sulla stabilità dell'area di influenza spagnola in Italia; l'ostilità del pontefice Paolo III Farnese verso i Medici, la sua aspirazione a creare uno Stato farnesiano nell'Italia centrale e la politica di neutralità attiva tra le grandi potenze da lui perseguita aggravavano la pericolosità del momento.
In questo quadro la successione fu al centro di un conflitto sotterraneo ma aspro. Da un lato il gruppo dei consiglieri del duca defunto, guidati dal "forestiero" cardinale Innocenzo Cibo, parente dei Medici ed uomo di fiducia di Carlo V, mirava all'elezione di Giulio, figlio illegittimo treenne di Alessandro, ed alla concessione della tutela al cardinale stesso: la direzione della vita politica fiorentina sarebbe così passata nelle mani di uomini di corte ed alti funzionari estranei al contesto cittadino, fautori di una linea di stretta osservanza imperiale e di rigido accentramento. Dall'altro, intorno a Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Matteo Strozzi, Roberto Acciaiuoli, gli ottimati fiorentini filomedicei, dopo breve sconcerto iniziale, si schierarono per Cosimo.
Ai loro occhi l'attuazione delle disposizioni imperiali appariva come l'unica alternativa possibile al disegno del Cibo, ed il governo diretto di un Medici come realistica condizione per una maggior autonomia di Firenze. Essi confidavano inoltre che l'inesperienza giovanile di C., la sua parziale estraneità agli ambienti di corte, i legami di parentela ed amicizia che egli aveva con alcuni dei "grandi", il peso stesso dell'appoggio dato alla sua elezione consentissero loro di recuperare lo spazio politico perduto negli anni precedenti e di realizzare quel principato temperato, condizionato dall'oligarchia cittadina, cui avevano vanamente aspirato dopo il 1530.
Nel clima di timore che il vuoto di potere provocato dalla morte di Alessandro suscitava in entrambi i gruppi, gli eventì si succedettero con estrema rapidità. Dopo che l'8 gennaio una prima seduta del Senato dei Quarantotto, supremo organo del governo cittadino, si era conclusa con un nienie di fatto, i capi ottimati, tramite Maria Salviati, mandavano a chiamare C., che si trovava al Trebbio. Questi nel frattempo, avuta notizia dell'assassinio di Alessandro, si era spontaneamente messo in viaggio per Firenze. Giunto in città, si recava immediatamente dal Cibo, e, pur senza porre esplicitamente la propria candidatura, gli offriva con reverenza "quegli aiuti che i bisogni della patria richiedessero". La presenza del giovane Medici, sostenuto dagli ottimati, da "ragunate d'affezionati e partigiani" e da spontanee manifestazioni della milizia, creava una situazione di fatto da cui era impossibile prescindere. Così il 9 genn. 1537, in una città percorsa da inquietudine, dove - scriverà il Varchi - "si vedeva preso e guardato da soldati non solo il Palazzo, ma i canti e tutte le bocche della via Larga", il Senato lo designò alla successione. La proposta fu avanzata dallo stesso Cibo, (con il quale C. si era impegnato a mantenersi fedele all'imperatore, a tutelare la vedova ed il figlio di Alessandro ed a perseguirne l'uccisore) e fu sostenuta da Francesco Vettori. Pochissime furono le voci dissenzienti.
Gli agiografi ducali hanno spesso esaltato la precoce fermezza politica di C. e la rapidità con cui seppe imporre la propria autorità a Firenze. La realtà però appare più sfumata. Agli inizi la sua posizione fu fragile, minata dall'esterno dal pericolo costituito dai fuorusciti, dall'ostilità dei Francesi e del papa, nonché dalla diffidenza dello stesso Carlo V; condizionata internamente dall'azione dei gruppi eterogenei che avevano concorso all'elezione: ad un osservatore avvertito come Filippo de' Nerli sembrava che C. fosse "stato fatto signore come si fanno i signori delle compagnie di Carnovaleo e che il suo governo procedesse "in su trespoli".
Il 10 gennaio, dando forma ufficiale alle condizioni poste a C. all'atto dell'elezione, il Senato deliberava che egli non avesse il titolo di duca, ma solo quello di "capo e primario della città"; che, diversamente da Alessandro, dovesse scegliere il proprio luogotenente tra gli stessi membri del Senato; che il suo appannaggio non superasse i 12.000 scudi annui. Era il fragile tentativo di limitarne per via legale i poteri, a favore dell'oligarchia cittadina. Questa inoltre gli affiancò non solo il Consiglio a rotazione, già previsto dalla costituzione del 1532 (il Magistrato supremo), ma anche un Consiglio segreto, composto da ottimati di grande autorità, come Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Roberto Acciaiuoli, Matteo Niccolini e Matteo Strozzi, che avrebbe dovuto guidarne le operazioni.
La notte tra il 9 e il 10 Alessandro Vitelli, d'altra parte, aveva occupato con un colpo di mano la Fortezza da basso, dichiarando di tenerla a nome di Carlo V e dello stesso C., purché questi restasse fedele all'imperatore: simbolo della tutela imperiale, la fortezza diventò anche base del potere personale del Vitelli, nonché del Cibo, che vi si rifugiò: un potere imposto con arroganza al giovane principe, ed ambiguamente renitente alle stesse direttive imperiali. Un'azione analoga fu condotta poco dopo anche a Livorno. Contemporaneamente confluivano in Toscana da Lerici 1.500 soldati spagnoli, sotto il comando di Francesco Sarmiento, mentre il marchese del Vasto, comandante delle forze imperiali nell'Italia settgntrionale, inviava a Firenze il capitano Pirro Colonna, con il compito di dirigere eventuali operazioni militari.
D'altro lato, benché C. non esitasse a dichiarare di voler "riposare nell'ombra dell'imperatore", e già il 12 gennaio gli inviasse un'ambasciata per chiedergli la concessione del titolo ducale nonché la mano della duchessa vedova Margherita d'Austria in segno della sua protezione, Carlo V, come rivelano i documenti conservati a Simancas, esitò a lungo tra l'opportunità di riconoscere il nuovo principato e quella di restaurare la repubblica, per sottrarre i fuorusciti fiorentini all'influenza francese.
Ancora nel maggio il conte di Cifuentes, inviato come ambasciatore imperiale a Firenze, aveva in realtà l'incarico segreto di valutare la situazione e giudicare se non fosse il caso di ridimensionare il potere di C.; e quando gli riconobbe, sia pure con una formula ambigua e con riserva dell'approvazione imperiale, la stessa autorità di cui aveva goduto Alessandro, lo fece in deroga alle istruzioni ricevute. Al tempo stesso, sulla base di una convenzione stipulata con Alessandro nel 1536, egli costringeva C. a cedere ufficialmente a Carlo V le fortezze di Firenze e Livorno, lasciandogli solo quella meno rilevante di Pisa.
Se al disegno dei fuorusciti di piegare la costituzione fiorentina in senso repubblicano ed alle loro propensioni filofrancesi C. oppose sempre con fermezza il proprio attaccamento al potere che gli era stato accordato e la propria lealtà verso l'imperatore, non è però facile individuare una sua linea politica personale nei loro confronti: con qualche ragione lo zio, il cardinale repubblicano Iacopo Salviati, gli rinfacciava a questo proposito di "dependere in tutto da altri".
In effetti nei tentativi iniziali di conciliazione verso Filippo Strozzi e verso i cardinali Salviati, Ridolfi, Gaddi durante il loro viaggio a Firenze, nello stesso indulto pubblicato il 30 gennaio in nome di C. traspaiono piuttosto le pressioni dell'oligarchia cittadina, legata ai fuorusciti da affinità politiche e spesso da vincoli di amicizia e di famiglia; mentre nelle resistenze opposte con qualche successo a questi tentativi emergono l'ostilità e la volontà di rottura, diversamente accentuate, degli esponenti imperiali a Firenze ed in Italia. Pochi mesi più tardi la mediazione condotta (in verità con scarso impegno e scarsi risultati) dal conte di Cifuentes, e l'ernanazione di un secondo indulto obbedivano alle disposizioni dello stesso Carlo V, incline ad una politica che precludesse ogni possibilità di intervento ai Francesi ed incontrasse l'approvazione del papa. Quando infine, nel luglio, i fuorusciti, rotti i lunghi indugi, con l'appoggio dei Francesi, la partecipazione militare di Piero Strozzi ed il decisivo concorso finanziario di Filippo, organizzarono una spedizione contro Firenze e penetrarono disordinatamente entro i confini dello Stato, la rapida azione militare condotta vittoriosamente contro di essi il 1º agosto a Montemurlo fu coordinata e diretta da Alessandro Vitelli. Da lui fu anche voluto, o almeno consentito, il massacro delle bande della fazione dei Cancellieri, che nel Pistoiese avevano appoggiato l'impresa degli esuli: sconfitte nello stesso giorno dalle truppe fiorentine, ed abbandonate, con i loro capi, alla ferocia della fazione avversa dei Panciatichi.
Allo scarso rilievo personale assunto da C. nella questione dei fuorusciti fa però riscontro il vigore con cui egli affrontò i problemi del governo interno, acquistando rapidamente autorità sulle magistrature cittadine ed assurgendo a fermo punto di riferimento per la rete dei commissari e dei rettori incaricati di reggere lo Stato e far fronte ai disordini ed alle lotte di'fazione che si intrecciarono pericolosamente alle vicende degli esuli non solo nel Pistoiese, ma anche nella Romagna fiorentina, a Borgo San Sepolcro, Anghiari. Così a chi, come gli oratori senesi residenti a Firenze, lo considerava entro il quadro della vita cittadina, C. ben sembrò essere e far "tutto" e sostituirsi di fatto agli organi costituzionali. In ciò fu sostenuto dalla madre, e soprattutto da un gruppo di abili e fedeli collaboratori, provenienti dal servizio privato di Maria Salviati, come il Ricci, o maturati già al servizio di Alessandro, se non addirittura di Lorenzo duca di Urbino e di Clemente VII., come Francesco Campana da Colle, Ugolino Griffoni da San Miniato, il giurista Lelio Torelli da Fano, Agnolo Marzi Medici, vescovo di Assisi. In questi uomini, talvolta di estrazione fiorentina ed aristocratica, ma più spesso originari di centri minori dello Stato o addirittura forestieri, ed in ogni caso personalmente legati al nuovo principe, che ne aveva promosso o mantenuto la fortuna, C., in qualche misura erede di tradizioni famigliari, trovò un contrappeso al Consiglio segreto posto al suo fianco dagli ottimati, uno strumento personale di governo e in un primo tempo probabilmente una guida.
Il colpo inferto a Montemurlo ai fuorusciti (i cui capi, fatti prigionieri da Alessandro Vitelli, furono consegnati a C. ad eccezione del più ricco e prestigioso di essi, Filippo Strozzi, e nel giro di un mese furono processatì ed in buona parte giustiziati) non dileguò le minacce e le incertezze che gravavano sul principato. Gli esuli superstiti, tra ì quali vì era Piero Strozzi, tentarono a più riprese di ricostituire un esercito con l'appoggio francese nella vicina base della Mirandola. Paolo III d'altro lato non abbandonò le proprie aspirazioni ad uno Stato farnesiano; né il campo imperiale offriva a C. un appoggio chiaro e concorde: ancora alla fine del 1539 circolavano voci inquietanti sulla possibilità che Carlo V trasferisse il ducato nelle mani dei Farnese per agevolare il proprio riavvicinamento al Papato. Dopo Montemurlo tuttavia si aprì a C. uno spazio di manovra di cui seppe avvalersi con abilità, da un lato rafforzando con tenacia, seppur gradualmente, il proprio potere interno, dall'altro impegnandosi nel difficile compito di consolidare la propria posizione internazionale e conquistare una più concreta autonomia nell'ambito del sistema spagnolo.
Già alla fine dell'estate del 1537 C. si proponeva di regolare in modo più favorevole i propri rapporti con Carlo V e gli inviava una legazione diretta da Averardo Serristori, con il compito di chiedere il riconoscimento della propria successione ad Alessandro ed il titolo ducale; la consegna di Filippo Strozzi, che il Vitelli deteneva nella Fortezza da basso ed intorno alla cui sorte si esercitavano numerose contrastanti pressioni; la restituzione delle fortezze, a garanzia dell'indipendenza reale dello Stato di Firenze; infine, ancora una volta, la mano di Margherita d'Austria. Carlo V, sia pure con qualche ritardo, rispose positivamente alla prima richiesta, adeguandosi del resto agli impegni provvisoriamente assunti dal Cifuentes; ed il 30 settembre emanò un privilegio imperiale che legittimava la successione di C. e gli attribuiva il titolo di duca di Firenze; ma sugli altri punti fece solo vaghe promesse. Tuttavia nella primavera del 1538, durante il convegno che ebbe luogo a Nizza tra l'imperatore, il pontefice e Francesco I, e che sfociò nella stipulazione di una tregua decennale tra Francia e Spagna, i rappresentanti di C. I ottennero alcune concessioni ulteriori: Carlo V ribadi la propria intenzione di conservare le fortezze e rifiutò delimitivamente a C. I la mano di Margherita d'Austria, di cui pochi mesi più tardi sarebbero state celebrate le nozze con uno dei più fieri avversari del duca, Ottavio Farnese; ma si impegnò a trovarglì un'altra soluzione matrimoniale conveniente; gli accordò il ridimensionamento delle guarnigioni spagnole, il cui costo gravava sulle esangui finanze fiorentine, e l'allontanamento da Firenze dell'inviso Alessandro Vitelli, che sarebbe stato sostituito con un capitano spagnolo; gli prornise infine la testa di Filippo Strozzi.
Se la lotta tenace che questi aveva intrapreso per la propria salvezza e gli appoggi di cui ancora godeva a corte e tra gli esponenti spagnoli in Italia valsero a ritardare ancora di alcuni mesi la conclusione della vicenda, alla fine dell'anno fu effettivamente emanato l'ordine di ronsegna a C. I, cui conseguì, il 18 dicembre, il suicidio del prigioniero.
Nel frattempo C. I, che aveva rifiutato la mano di Vittoria Farnese, insistentemente offertagli dal papa, si impegnava, tramite il proprio ambasciatore presso Carlo V, nella ricerca di una sposa "bella nobile ricca et giovine" e di parte spagnola; ed il 29 luglio 1539, sotto gli auspici dell'imperatore, si univa in matrimonio con Eleonora, figlia di don Pietro di Toledo, viceré di Napoli e fratello del duca d'Alba.
Il parentado così concluso, pur inferiore a quello cui egli aveva inizialmente aspirato, rafforzava senza dubblo la sua posizione, garantendogli l'appoggio attivo di una delle più potenti consorterie spagnole. Con gli Alba-Toledo egli avrebbe però condiviso negli anni successivi non solo amici e consiglieri (alcuni dei quali avrebbero costituito il seguito stabile ed autorevole di Eleonora a Firenze), ma anche gli avversari che essi contavano a corte ed in Italia, quali il marchese del Vasto o l'ambasciatore imperiale a Roma, il marchese d'Aguilar. Le trattative precedenti le nozze furono ovviamente dominate da considerazioni politiche e finanziarie: in esse tuttavia trovò qualche spazio anche la scelta personale del giovane C. I, irremovibile nel preferire alla primogenita Isabella, brutta e "di cervello il ludibrio di Napoli", la più giovane, aggraziata e saggia Eleonora. A lei C. I restò sempre legato da stima ed affetto profondi; e con lei visse, come scriveva il suo protomedico e biografo Baccio Baldini, "con molto riposo et piacere, lietamente molt'anni". Il loro matrimonio fu coronato, tra il 1540 ed il 1554, dalla nascita di cinque figli maschi e tre femmine.
Con l'acquisita maturità ed il consolidarsi della sua posizione internazionale, C. I veniva anche liberandosi gradualmente, come scriverà un altro dei suoi biografi cinquecenteschi, il Cini, "da balii et da tutori che come fanciullo et pupillo facevano professione di governarlo". Il potere degli ottimati, già incrinato dal fallimento dei loro disegni di conciliazione con i fuorusciti, dopo la sconfitta di questi subì una degradazione naturale: la sopravvivenza, peraltro lunga, del Consiglio segreto fu un puro fatto di forma, ed anche Francesco Guicciardini, forse il più autorevole fra i consiglieri, provò la tristezza dell'emarginazione.
Più difficile fu liberarsi di coloro che esercitavano un'autorità in ragione di un rapporto privilegiato con gli Imperiali: alla fine dei 1537 Alessandro Vitelli, ad esempio, non esitava a far comunicare arrogantemente dal proprio inviato personale presso Carlo V ai legati di C. I, di essere ben disposto a non "disunirsi" da lui, purché egli "per essere giovine o mai consigliato da qualcuno." non facesse "cose da irritarlo o provocarlo". Ma, come si è visto, C. I, nella primavera del 1538 ne ottenne da Carlo V l'allontanamento. Tra il 1539 ed il 1540 riuscì a mettere in disparte anche il Cibo, denunciando con durezza a Carlo V l'indiscrezione di cui egli aveva dato prova, gli intrighi che aveva intessuto a Roma con i ministri imperiali, le insinuazioni calunniose che aveva diffuso a proposito di un piano dello stesso C. I per avvelenare il figlioletto illegittimo di Alessandro. Ridotto a non scambiar con il duca "se non buon di, buona notte e basta", il Cibo si ritirò infine volontariamente a Massa nel maggio 1540. Un anno più tardi, C. I esautorava anche Pirro Colonna, adducendo a pretesto il suo contegno arrogante nei confronti del nano di corte.
Erano, per il duca di Firenze, passi necessari non solo per l'affermazione di principio della propria sovranità, ma anche verso quell'esercizio diretto, personale del potere che caratterizzò il suo stile di governo. Senza modificare la costituzione del 1532, che, a garanzia dei diritti dell'aristocrazia fiorentina, prevedeva il funzionamento di tre Consigli (il Consiglio dei duecento, il Senato dei quarantotto ed il Magistrato supremo) ed attribuiva alle tradizionali magistrature cittadine un ruole, specifico e sostanzialmente autonomo, e prima ancora di creare a supporto della propria azione nuove figure istituzionalizzate di ministri, C. I mirò ad accentrare nelle proprie mani non solo il potere legislativo, come aveva già fatto Alessandro, ma anche l'amministrazione ordinaria: richiese relazioni minuziose sugli affari di polizia, intervenne nelle cause civili e penali, instaurò l'uso di rispondere personalmente alle suppliche dei sudditi. La sua volontà di conoscenza diretta del dominio ed al tempo stesso una nuova pratica di governo, attenta non solo ai problemi della città dominante, ma a quelli delle Comunità soggette, si manifestarono anche nella consuetudine precoce dei viaggi: tra il 1539 ed il 1543 C. I fu ripetutamente a Pisa, dove diede avvio ai primi provvedimenti per il risanamento della pianura; a Pietrasanta, per porre le basi dello sfruttamento minerario della zona; ad Arezzo, per sorvegliare la costruzione della fortezza, nel Casentino, in Valdelsa, a Borgo San Sepolcro.
Nel dominio C. I perseguì con durezza la repressione delle lotte di fazione: a Pistoia in particolare giunse a sospendere gli uffici pubblici cittadini (dal 1538 al 1546) ed a sottrarre all'oligarchia locale l'amministrazione delle entrate, delegando al governo della città commissari e provveditori fiorentini. Negli stessi anni la moltiplicazione delle "bande", ossia delle milizie locali soggette a servizio in caso di necessità e dotate di ampi privilegi fiscali, giurisdizionali, amministrativi che erano state costituite da Alessandro, veniva offrendo a C. I non solo un serbatoio di truppe fedeli, ma anche una rete di supporto capillarmente diffusa nel territorio. Anche le fortezze di cui tra il 1539 ed il 1540 si intraprese il restauro o la costruzione a San Miniato, Arezzo, Pistoia, Prato, Firenze, Fivizzano furono concepite come deterrente interno oltre che strumento di difesa militare.
Del carattere innovativo della sua politica nel dominio C. I fu orgogliosamente consapevole. Nel 1540, scrivendo a Carlo V, a prova della propria capacità di governo e ferma volontà di "perpetuare nello Stato" adduceva in primo luogo i risultati conseguiti nelle "cose di fuora del dominio": il compimento della fortezza di Arezzo, interrotta da Alessandro a lavori appena iniziati; la restaurazione dell'ordine a Pistoia, mentre prima di luì si era sempre ritenuto che "la divisione et discordie di quella città" fossero essenziali al mantenimento dei governo fiorentino.
L'intento di affermare la pienezza delle proprie prerogative sovrane, e quindi la giurisdizione dello Stato, si manifestò anche nella politica seguita da C. I in materia di rapporti tra Stato e Chiesa durante i primi anni del suo principato, con la collaborazione, se non addirittura la guida, di personaggi come Lelio Torelli, Francesco Campana e lo stesso Ricci, ostili alla politica curiale. In primo luogo in questa luce vanno considerati la resistenza opposta tra il 1537 ed il 1540 all'esazione delle decime ecclesiastiche nel ducato; la lunga (ed infine vittoriosa) controversia con il papa per l'attribuzione del lauto beneficio ecclesiastico dell'ospedale di Altopascio; l'istituzione, fin dal 1539, di forme di controllo sull'attribuzione dei benefici da parte dei rettori civili; l'imprigionamento qualche anno più tardi (1545) di venti domenicani di S. Marco, troppo vivacemente memori della tradizione savonaroliana, e l'espulsione dell'Ordine dal convento fiorentino.
Palazzo Pitti: L’arte e la storia, Marco Chiarini, Nardine Editore, 2000-2003.
“Le vicende costruttive”, Fiorella Facchinetti, pp. 24 ff.