Biografo di Pietro Leopoldo
PIETRO LEOPOLDO d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, poi imperatore del Sacro Romano Impero come Leopoldo II. – Nacque a Schönbrunn (Vienna) il 3 maggio 1747, terzogenito maschio dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e di Francesco Stefano di Lorena, imperatore dal 1745 alla morte (1765), granduca di Toscana dal 1737. Dopo la scomparsa del fratello maggiore Carlo (18 gennaio 1761) fu promesso all’infanta di Spagna Maria Luisa di Borbone, figlia di Carlo III, che sposò a Innsbruck il 5 agosto 1765. L’unione contribuiva al riavvicinamento tra le Case d’Asburgo e di Borbone, che avrebbe visto anche le nozze tra le sorelle Maria Carolina con Ferdinando IV di Napoli, Maria Antonietta con il futuro Luigi XVI di Francia, e Maria Amalia con Ferdinando di Borbone-Parma. Il quartogenito di Maria Teresa, Ferdinando, si unirà poi nel 1771 con Maria Beatrice d’Este, divenendo governatore della Lombardia austriaca.
Come tutti i figli della casata, ebbe un’educazione accurata, affidata in primis a Franz von Thurn-Valsassina, alto ufficiale carinziano che, con il fratello Anton fu tra i pochi intimi del giovane: la sua scomparsa agli inizi del 1766 lasciò un vuoto profondo in Pietro Leopoldo, suggerito dalle missive ai due fratelli.
Responsabile della sua formazione dal 1761, Thurn ne delineò meriti e difetti in una relazione a Maria Teresa (15 maggio 1763), dove i tratti del carattere dell’adolescente erano individuati: orgoglioso e chiuso, incline alla malinconia e all’isolamento, poco curante delle ‘maniere’ e dell’etichetta care alla madre, padroneggiava latino e francese, ma appariva soprattutto dotato per le scienze, la geografia e la matematica. Prediletta tra le scienze della natura, la chimica costituirà per Pietro Leopoldo per tutta la vita una passione legata ai saperi ‘utili’, cui guardare come traduzione pratica dell’incivilimento.
Severa dovette essere anche l’educazione religiosa dell’arciduca, improntata al Reformkatholizismus di area asburgica e al giansenismo. Presenza viva in tale ambito fu Ludovico Antonio Muratori con la Regolata devozion de’ Cristiani del 1742, il Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723), riediti per ordine di Pietro Leopoldo nel 1789-90, e il trattatello Della pubblica felicità oggetto de’ buoni Principi (1749). Se la critica del devozionalismo e della superstizione, e l’appello per una più intensa cura d’anime scevra da interferenze romane, costituirono una delle basi della futura politica ecclesiastica di Pietro Leopoldo, il tema della felicità pubblica gli fu sempre presente nell’enunciazione dei doveri dei sovrani e nella proposta di un governo finalizzato al bene comune e alla oculata valorizzazione del merito. Saldo in un austero cristianesimo evangelico, partecipò del rigorismo filogiansenista presente in famiglia e nel cattolicesimo austriaco.
Alla severità del comportamento e all’introspezione contribuì la figura del trentino Karl Anton von Martini, suo insegnante dal 1761, massimo interprete austriaco del diritto naturale e professore all’Università di Vienna. Conoscitore dei teorici del diritto pubblico, da Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, e del precoce oppositore della tortura giudiziaria Christianus Thomasius, Martini si aprì all’Esprit des loix di Montesquieu, e nelle opere maggiori – una delle quali appositamente redatta per l’arciduca (1761) – sviluppò una visione contrattualistica del governo da cui era esclusa l’origine divina del potere.
Complessi e contrastati furono i rapporti familiari. Pietro Leopoldo dovette lottare per emanciparsi dalla tutela della madre. Il rigido controllo materno ricorse anche a spie che scatenavano la reazione del giovane, già «poco disposto all’allegria» e «costretto a dissimulare» nel formalismo di Corte. L’affetto per il figlio non venne, però, mai meno. Le Instructions à mon fils di Maria Teresa lo accompagnarono a Firenze (dove giunse con la moglie, come granduca di Toscana) e dispensavano consigli morali e politici tesi a raccomandare l’osservanza scrupolosa della religione senza concessioni alle interferenze dell’ecclesiastico, mentre si stagliavano nel testo la diffidenza verso la corruttela degli italiani e il timore per i «cattivi libri», che il giovane avrebbe potuto incontrare in una Toscana dalle tenaci presenze inglesi e libertine.
I consigli di Francesco Stefano al figlio risultano più sfumati. Dal padre, Pietro Leopoldo ereditò la passione per le scienze e una visione provvidenzialistica del mondo destinata a riemergere nei momenti più critici della sua esperienza di governo. Nel gennaio 1765, in vista del matrimonio e del trasferimento in Toscana, Francesco Stefano redasse per lui puntuali istruzioni. Vi consigliava «douceur» e «politesse» quali metodi di governo e soprattutto la misura nelle cose e nei piaceri, frutto di un blando stoicismo cristiano. Ma l’insistenza di entrambi i genitori andava all’armonia familiare e al rispetto assoluto per il primogenito, entro una stringente prospettiva dinastica. Non sempre gli eredi Asburgo-Lorena si sarebbero attenuti a tali precetti. Più aperto verso il fratello nelle relazioni reciproche – come mostrano i loro carteggi –, Giuseppe II non esiterà a imporre l’annullamento della secondogenitura toscana istituita dal padre nel 1763, che garantiva l’autonomia del Granducato per i successori di Pietro Leopoldo. Ragioni politiche, strategiche e familiari – Maria Luisa diede al marito sedici figli, mentre un figlio naturale, Luigi, venne da Livia Raimondi – ratificarono la resa siglata a Vienna nel luglio 1784: salvo la distruzione di quell’inviso documento come primo atto da imperatore nel 1790.
Giunto a Firenze il 13 settembre 1765, Pietro Leopoldo iniziò il venticinquennio di regno. Sovrano di un piccolo Stato, la cui popolazione non superava il milione di abitanti, dotato però di importanza strategica per la prossimità a Roma, alle rotte del Mediterraneo e alle vie di transito per il Nord, nutrì sempre un forte senso dinastico considerandosi tanto arciduca asburgico quanto granduca di Toscana, e svolse spesso opera di informazione in funzione della politica imperiale.
Ai suoi doveri verso la casata lo richiamò anche la decisione di Giuseppe II – vedovo nel 1767 – di non risposarsi, che gli impose l’obbligo di assicurare tramite la prole la successione al trono imperiale. Sull’educazione dei figli impegnò un lungo duello con la madre e il fratello, sfociato nella consegna del primogenito maschio, il futuro Francesco II, allo zio, che lo educò ai compiti di governo della monarchia (Relazione sulla Monarchia, 1784). Spazi più ampi ebbe in politica interna. La storiografia ha da tempo sollevato riserve sull’idea tradizionale di un piano organico e coerente di riforme gradualmente attuato da un giovane e quasi demiurgico granduca. Contrasti e arretramenti interessarono buona parte di un edificio politico comunque imponente, che consegnò all’Ottocento una società fondata sulla proprietà terriera, la mezzadria e il libero mercato agricolo, su leggi, miti e valori condivisi, sul non reversibile distacco dalla Curia romana. Ma il cammino delle riforme fu il frutto di lotte interne e di dibattiti intensi, specchio di interessi opposti discussi entro ristrette cerchie di governo: è il caso, dal 1769, della tentata formazione di una piccola proprietà contadina mediante l’alienazione o la concessione a livello perpetuo di beni della Corona e degli enti assistenziali, come pure della riorganizzazione delle istituzioni ecclesiastiche; ed è quanto avvenne nella disputa tra fautori (Angelo Tavanti) e avversari (Francesco Maria Gianni) dell’imposta unica sui terreni di matrice fisiocratica negli anni Settanta, ovvero nel dibattito che precedette la liberalizzazione doganale del 1781. Tutto ciò colloca il venticinquennio di regno ai livelli più alti del riformismo europeo, entro un contesto largamente toccato dai fermenti illuministi. L’abnegazione del sovrano fu spesso riconosciuta – «infaticabile» lo definì, diciannovenne, Franz Xaver Wolf von Rosenberg-Orsini, il diplomatico carinziano che Maria Teresa gli pose accanto nei primi cinque anni di regno e al quale rimase legato anche in seguito.
Dall’avvio del suo governo sovrintese personalmente il Consiglio di Stato affiancato da un manipolo di funzionari – Pompeo Neri, Giulio Rucellai, Giovan Battista Clemente Nelli, Tavanti, Gianni, Stefano Bertolini –, che riflettono il mutamento generazionale e di cultura ai vertici dell’amministrazione. La carestia del 1764-67 che colpì l’area mediterranea fu affrontata con misure di progressiva liberalizzazione, che giunsero il 15 settembre 1766 a promulgare la libertà di panizzazione e di circolazione interna dei cereali. In seguito, la legge del 18 settembre 1767 consentì la libera esportazione dei grani entro un livello massimo dei prezzi e aprì alla Toscana il mercato internazionale. I molteplici aspetti della ‘lotta politica’ attorno a queste misure sono noti grazie agli studi di Mario Mirri (1972), e registrano l’attenzione del governo per gli analoghi provvedimenti francesi, che dal 1764 avevano introdotto misure di liberalizzazione del mercato, e l’interesse per l’esperienza di governo di Robert-Jacques Turgot, lungo un percorso che condurrà in Toscana al più completo liberoscambismo frumentario (1775). Nel 1766 venne intanto promossa la ‘grande inchiesta’ sull’economia, condotta tramite parroci e cancellieri comunali, i cui esiti indirizzarono gli interventi successivi di politica economica.
A partire dalla prima fase delle riforme (1765-71) lo scorporo della Maremma senese, ora direttamente amministrata dal centro, e la soppressione degli apparati annonari contribuì a cambiare il ruolo della dominante, facendo di Firenze la capitale politico-amministrativa di uno Stato unitario (1782). Negli anni Settanta, la riforma dei tribunali centrali e periferici impose la professionalizzazione dei giudici, tenuti alla laurea e all’esercizio delle funzioni sotto controllo regio. Spariva, così, il privilegio dei cittadini fiorentini nelle magistrature, sostituite da podesterie e vicariati criminali dotati di giurisdizione uniforme, parte di un impegno di modernizzazione che tendeva ad assicurare i diritti soggettivi dei sudditi. Sul piano finanziario il debito pubblico ereditato dall’età medicea (88 milioni di lire) rappresentò un’altra sfida per Pietro Leopoldo, aggravata dalla richiesta del fratello, quale erede universale del padre, di una forte somma (1.200.000 fiorini), risolta con una transazione nel 1766 (Zobi, 1850, Appendice, pp. 34-37). Con notevole precocità rispetto ad altre realtà italiane, nel 1770 fu avviata la soppressione delle arti di origine medioevale, sostituite da una Camera di commercio. Razionalizzazione del carico fiscale e controllo tributario portarono, inoltre, alla soppressione dell’Appalto delle imposte (26 agosto 1768), mentre a partire dal 1774 i carichi sulla proprietà fondiaria vennero unificati nella nuova tassa di redenzione, volta a estinguere gradualmente il debito, che risultò pressoché esaurito alla partenza del sovrano nel 1790.
a«Il manifesto di quella straordinaria stagione riformatrice» (Mascilli Migliorini, 1997, p. 265) poggiò su di una complessa elaborazione ideologica, che accolse prospettive agitate già durante la reggenza lorenese (1737-65) e nei nuovi dibattiti politico-economici europei. Vi contribuì, tra i primi, il Della decima di Giovanni Francesco Pagnini, apparso nel 1765-66 con dedica a Pietro Leopoldo, che reinterpreta la struttura produttiva del Granducato evidenziandone la vocazione agricola – e non più manifatturiera – e il possibile sviluppo tramite la liberalizzazione dei mercati. Per volontà del granduca nel 1775 vide la luce il Discorso sopra la Maremma di Siena di Sallustio Antonio Bandini, considerato il capostipite del liberismo economico toscano. Molteplici furono gli echi della fisiocrazia, ben attestata in Toscana tra anni Sessanta e Settanta. Dopo una fase di rallentamento, il disegno di privatizzazione dei beni pubblici fu rilanciato per impulso di Francesco Maria Gianni negli anni Ottanta. Ma l’auspicata estensione di una piccola proprietà coltivatrice si scontrò con la scarsità delle risorse dei contadini, costretti a cedere le terre ai grandi proprietari, più attenti a increme
Sotto la guida di Neri fu avviata dal 1771 la progressiva ristrutturazione dei governi provinciali, – Volterra e Arezzo nel 1774, Livorno, Firenze nel 1782. Essa concedeva larghe autonomie ai consigli comunali e ai loro organi, Gonfaloniere e Priori, sorteggiati dagli elenchi dei possidenti. Abolite le antiche magistrature – come pure il Consiglio dei duecento e il Senato dei quarantotto a Firenze –, il controllo dei nuovi enti spettò a una Camera delle comunità alle dipendenze regie. Ma la soppressione delle antiche magistrature comportò anche il ridimensionamento del potere dei patriziati, a cominciare da quello fiorentino. Ne risultò potenziata l’equiparazione dei sudditi-cittadini di fronte alla legge, che ritroviamo anche in una delle principali riforme leopoldine, quella della giustizia criminale, culminata nella legge del 30 novembre 1786, che per la prima volta in Europa aboliva tortura e pena di morte, e che recepiva l’Illuminismo penale di Cesare Beccaria.
Mitezza, personalità e proporzionalità delle pene erano temi ricorrenti dell’umanizzazione del diritto a partire da Montesquieu e Thomasius. Ma a innovare i contenuti della riforma erano soprattutto l’impianto garantista ancorato alla superiorità della legge rispetto al giudice, la pubblicità del processo, l’attenuazione della contumacia e del valore probatorio della confessione, il contenimento della carcerazione preventiva, il divieto delle confische e la limitazione dei giuramenti. Se la Leopoldina non appare pienamente matura sotto il profilo tecnico della codificazione, la divaricazione dall’antico regime è netta, come mostra la scelta di un dispositivo a soggetto unico, la depenalizzazione di molti reati e la semplificazione di norme e procedure, che la avvicinano – e con lei tutta l’opera di Pietro Leopoldo – all’avvento dello ‘Stato procedurale’ continentale. I materiali preparatori evidenziano come «il merito dell’iniziativa spetti unicamente» al granduca (Da Passano, 1988, p. 12), e rispecchiano una riflessione sugli esiti migliori del riformismo giuridico coevo, dal Dei delitti e delle pene di Beccaria alla Théorie des loix criminelles di Jacques-Pierre Brissot de Warville (1780), ai volumi della sua Bibliothèque philosophique du législateur (1782-1785), presenti nella biblioteca del principe insieme ai testi di Montesquieu e John Locke, scelti come letture per i figli.
La riforma criminale sfociò in una sostanziale separazione tra le funzioni di giustizia e di polizia. Nel maggio 1777 nasceva il Supremo tribunale di giustizia, preposto alla supervisione della giurisdizione penale nel Paese e composto di giudici di nomina regia. L’abolizione dell’antica magistratura degli Otto di guardia (1777) aprì la via all’erezione del Buongoverno (1784) dotato di vasti poteri di controllo. Quattro commissari laureati disciplinarono i quartieri urbani della capitale, comprendendo nei propri compiti anche funzioni igienico-sanitarie e di assistenza. In seguito i poteri repressivi di polizia si ampliarono, con largo uso della procedura per direttissima (‘processo economico’), che comportava l’irrogazione di pene severe e senza possibilità di appello da parte dei commissari. Si trattava di misure destinate, insieme al ricorso del principe alle delazioni, ad accrescere lo scontento della popolazione. Del malcontento si fece portavoce Gianni che di fronte all’ulteriore potenziamento del Buongoverno lamentò che esso costituisse, ormai, nel 1789, «un canale di arbitrio legalizzato» (Mascilli Migliorini, 1997, p. 393). Interprete della «possibile umana felicità nell’onesto esercizio della libertà civile» (Zimmermann, 1901, p. 125), ma tutore severo della morale pubblica, Pietro Leopoldo si mostrò aggiornato sul dibattito internazionale in materia, dal Traité de la police di Nicolas de La Mare ai regolamenti parigini di polizia, ai noti contatti con Joseph von Sonnenfels, oppositore della tortura e lucido esponente dell’Aufklärung austriaca.
Sin dai primi anni di regno la riorganizzazione fiscale comportò una duplice sfida con nobiltà e clero. Pietro Leopoldo non amò la nobiltà toscana, preferendo circondarsi di capaci funzionari ‘borghesi’. Le riforme comunali e giudiziarie favorirono la razionalizzazione degli uffici, dove i ranghi ridotti degli impiegati furono sottoposti a un rigoroso controllo disciplinare. Formati da esperti, i dipartimenti accolsero meno patrizi e nobili di un tempo e videro la costituzione di un funzionariato relativamente moderno, capace di progressione di carriera in base al merito e alle competenze. La Relazione dei dipartimenti e degli impiegati del 1773, redatta dal granduca per proprio uso, fornisce una straordinaria visione dall’interno dei meccanismi dell’amministrazione e dei gruppi clientelari e politici che vi si confrontarono. Quanto al contrasto con la Chiesa, esso fu presente in tutta l’esperienza toscana di Pietro Leopoldo e coinvolse svariate componenti, dal giurisdizionalismo alle correnti del giansenismo francese e italiano, sino alla stessa disincantata e pessimistica coscienza religiosa del principe.
Come tutti i figli della casata, ebbe un’educazione accurata, affidata in primis a Franz von Thurn-Valsassina, alto ufficiale carinziano che, con il fratello Anton fu tra i pochi intimi del giovane: la sua scomparsa agli inizi del 1766 lasciò un vuoto profondo in Pietro Leopoldo, suggerito dalle missive ai due fratelli.
Responsabile della sua formazione dal 1761, Thurn ne delineò meriti e difetti in una relazione a Maria Teresa (15 maggio 1763), dove i tratti del carattere dell’adolescente erano individuati: orgoglioso e chiuso, incline alla malinconia e all’isolamento, poco curante delle ‘maniere’ e dell’etichetta care alla madre, padroneggiava latino e francese, ma appariva soprattutto dotato per le scienze, la geografia e la matematica. Prediletta tra le scienze della natura, la chimica costituirà per Pietro Leopoldo per tutta la vita una passione legata ai saperi ‘utili’, cui guardare come traduzione pratica dell’incivilimento.
Severa dovette essere anche l’educazione religiosa dell’arciduca, improntata al Reformkatholizismus di area asburgica e al giansenismo. Presenza viva in tale ambito fu Ludovico Antonio Muratori con la Regolata devozion de’ Cristiani del 1742, il Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723), riediti per ordine di Pietro Leopoldo nel 1789-90, e il trattatello Della pubblica felicità oggetto de’ buoni Principi (1749). Se la critica del devozionalismo e della superstizione, e l’appello per una più intensa cura d’anime scevra da interferenze romane, costituirono una delle basi della futura politica ecclesiastica di Pietro Leopoldo, il tema della felicità pubblica gli fu sempre presente nell’enunciazione dei doveri dei sovrani e nella proposta di un governo finalizzato al bene comune e alla oculata valorizzazione del merito. Saldo in un austero cristianesimo evangelico, partecipò del rigorismo filogiansenista presente in famiglia e nel cattolicesimo austriaco.
Alla severità del comportamento e all’introspezione contribuì la figura del trentino Karl Anton von Martini, suo insegnante dal 1761, massimo interprete austriaco del diritto naturale e professore all’Università di Vienna. Conoscitore dei teorici del diritto pubblico, da Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, e del precoce oppositore della tortura giudiziaria Christianus Thomasius, Martini si aprì all’Esprit des loix di Montesquieu, e nelle opere maggiori – una delle quali appositamente redatta per l’arciduca (1761) – sviluppò una visione contrattualistica del governo da cui era esclusa l’origine divina del potere.
Complessi e contrastati furono i rapporti familiari. Pietro Leopoldo dovette lottare per emanciparsi dalla tutela della madre. Il rigido controllo materno ricorse anche a spie che scatenavano la reazione del giovane, già «poco disposto all’allegria» e «costretto a dissimulare» nel formalismo di Corte. L’affetto per il figlio non venne, però, mai meno. Le Instructions à mon fils di Maria Teresa lo accompagnarono a Firenze (dove giunse con la moglie, come granduca di Toscana) e dispensavano consigli morali e politici tesi a raccomandare l’osservanza scrupolosa della religione senza concessioni alle interferenze dell’ecclesiastico, mentre si stagliavano nel testo la diffidenza verso la corruttela degli italiani e il timore per i «cattivi libri», che il giovane avrebbe potuto incontrare in una Toscana dalle tenaci presenze inglesi e libertine.
I consigli di Francesco Stefano al figlio risultano più sfumati. Dal padre, Pietro Leopoldo ereditò la passione per le scienze e una visione provvidenzialistica del mondo destinata a riemergere nei momenti più critici della sua esperienza di governo. Nel gennaio 1765, in vista del matrimonio e del trasferimento in Toscana, Francesco Stefano redasse per lui puntuali istruzioni. Vi consigliava «douceur» e «politesse» quali metodi di governo e soprattutto la misura nelle cose e nei piaceri, frutto di un blando stoicismo cristiano. Ma l’insistenza di entrambi i genitori andava all’armonia familiare e al rispetto assoluto per il primogenito, entro una stringente prospettiva dinastica. Non sempre gli eredi Asburgo-Lorena si sarebbero attenuti a tali precetti. Più aperto verso il fratello nelle relazioni reciproche – come mostrano i loro carteggi –, Giuseppe II non esiterà a imporre l’annullamento della secondogenitura toscana istituita dal padre nel 1763, che garantiva l’autonomia del Granducato per i successori di Pietro Leopoldo. Ragioni politiche, strategiche e familiari – Maria Luisa diede al marito sedici figli, mentre un figlio naturale, Luigi, venne da Livia Raimondi – ratificarono la resa siglata a Vienna nel luglio 1784: salvo la distruzione di quell’inviso documento come primo atto da imperatore nel 1790.
Giunto a Firenze il 13 settembre 1765, Pietro Leopoldo iniziò il venticinquennio di regno. Sovrano di un piccolo Stato, la cui popolazione non superava il milione di abitanti, dotato però di importanza strategica per la prossimità a Roma, alle rotte del Mediterraneo e alle vie di transito per il Nord, nutrì sempre un forte senso dinastico considerandosi tanto arciduca asburgico quanto granduca di Toscana, e svolse spesso opera di informazione in funzione della politica imperiale.
Ai suoi doveri verso la casata lo richiamò anche la decisione di Giuseppe II – vedovo nel 1767 – di non risposarsi, che gli impose l’obbligo di assicurare tramite la prole la successione al trono imperiale. Sull’educazione dei figli impegnò un lungo duello con la madre e il fratello, sfociato nella consegna del primogenito maschio, il futuro Francesco II, allo zio, che lo educò ai compiti di governo della monarchia (Relazione sulla Monarchia, 1784). Spazi più ampi ebbe in politica interna. La storiografia ha da tempo sollevato riserve sull’idea tradizionale di un piano organico e coerente di riforme gradualmente attuato da un giovane e quasi demiurgico granduca. Contrasti e arretramenti interessarono buona parte di un edificio politico comunque imponente, che consegnò all’Ottocento una società fondata sulla proprietà terriera, la mezzadria e il libero mercato agricolo, su leggi, miti e valori condivisi, sul non reversibile distacco dalla Curia romana. Ma il cammino delle riforme fu il frutto di lotte interne e di dibattiti intensi, specchio di interessi opposti discussi entro ristrette cerchie di governo: è il caso, dal 1769, della tentata formazione di una piccola proprietà contadina mediante l’alienazione o la concessione a livello perpetuo di beni della Corona e degli enti assistenziali, come pure della riorganizzazione delle istituzioni ecclesiastiche; ed è quanto avvenne nella disputa tra fautori (Angelo Tavanti) e avversari (Francesco Maria Gianni) dell’imposta unica sui terreni di matrice fisiocratica negli anni Settanta, ovvero nel dibattito che precedette la liberalizzazione doganale del 1781. Tutto ciò colloca il venticinquennio di regno ai livelli più alti del riformismo europeo, entro un contesto largamente toccato dai fermenti illuministi. L’abnegazione del sovrano fu spesso riconosciuta – «infaticabile» lo definì, diciannovenne, Franz Xaver Wolf von Rosenberg-Orsini, il diplomatico carinziano che Maria Teresa gli pose accanto nei primi cinque anni di regno e al quale rimase legato anche in seguito.
Dall’avvio del suo governo sovrintese personalmente il Consiglio di Stato affiancato da un manipolo di funzionari – Pompeo Neri, Giulio Rucellai, Giovan Battista Clemente Nelli, Tavanti, Gianni, Stefano Bertolini –, che riflettono il mutamento generazionale e di cultura ai vertici dell’amministrazione. La carestia del 1764-67 che colpì l’area mediterranea fu affrontata con misure di progressiva liberalizzazione, che giunsero il 15 settembre 1766 a promulgare la libertà di panizzazione e di circolazione interna dei cereali. In seguito, la legge del 18 settembre 1767 consentì la libera esportazione dei grani entro un livello massimo dei prezzi e aprì alla Toscana il mercato internazionale. I molteplici aspetti della ‘lotta politica’ attorno a queste misure sono noti grazie agli studi di Mario Mirri (1972), e registrano l’attenzione del governo per gli analoghi provvedimenti francesi, che dal 1764 avevano introdotto misure di liberalizzazione del mercato, e l’interesse per l’esperienza di governo di Robert-Jacques Turgot, lungo un percorso che condurrà in Toscana al più completo liberoscambismo frumentario (1775). Nel 1766 venne intanto promossa la ‘grande inchiesta’ sull’economia, condotta tramite parroci e cancellieri comunali, i cui esiti indirizzarono gli interventi successivi di politica economica.
A partire dalla prima fase delle riforme (1765-71) lo scorporo della Maremma senese, ora direttamente amministrata dal centro, e la soppressione degli apparati annonari contribuì a cambiare il ruolo della dominante, facendo di Firenze la capitale politico-amministrativa di uno Stato unitario (1782). Negli anni Settanta, la riforma dei tribunali centrali e periferici impose la professionalizzazione dei giudici, tenuti alla laurea e all’esercizio delle funzioni sotto controllo regio. Spariva, così, il privilegio dei cittadini fiorentini nelle magistrature, sostituite da podesterie e vicariati criminali dotati di giurisdizione uniforme, parte di un impegno di modernizzazione che tendeva ad assicurare i diritti soggettivi dei sudditi. Sul piano finanziario il debito pubblico ereditato dall’età medicea (88 milioni di lire) rappresentò un’altra sfida per Pietro Leopoldo, aggravata dalla richiesta del fratello, quale erede universale del padre, di una forte somma (1.200.000 fiorini), risolta con una transazione nel 1766 (Zobi, 1850, Appendice, pp. 34-37). Con notevole precocità rispetto ad altre realtà italiane, nel 1770 fu avviata la soppressione delle arti di origine medioevale, sostituite da una Camera di commercio. Razionalizzazione del carico fiscale e controllo tributario portarono, inoltre, alla soppressione dell’Appalto delle imposte (26 agosto 1768), mentre a partire dal 1774 i carichi sulla proprietà fondiaria vennero unificati nella nuova tassa di redenzione, volta a estinguere gradualmente il debito, che risultò pressoché esaurito alla partenza del sovrano nel 1790.
a«Il manifesto di quella straordinaria stagione riformatrice» (Mascilli Migliorini, 1997, p. 265) poggiò su di una complessa elaborazione ideologica, che accolse prospettive agitate già durante la reggenza lorenese (1737-65) e nei nuovi dibattiti politico-economici europei. Vi contribuì, tra i primi, il Della decima di Giovanni Francesco Pagnini, apparso nel 1765-66 con dedica a Pietro Leopoldo, che reinterpreta la struttura produttiva del Granducato evidenziandone la vocazione agricola – e non più manifatturiera – e il possibile sviluppo tramite la liberalizzazione dei mercati. Per volontà del granduca nel 1775 vide la luce il Discorso sopra la Maremma di Siena di Sallustio Antonio Bandini, considerato il capostipite del liberismo economico toscano. Molteplici furono gli echi della fisiocrazia, ben attestata in Toscana tra anni Sessanta e Settanta. Dopo una fase di rallentamento, il disegno di privatizzazione dei beni pubblici fu rilanciato per impulso di Francesco Maria Gianni negli anni Ottanta. Ma l’auspicata estensione di una piccola proprietà coltivatrice si scontrò con la scarsità delle risorse dei contadini, costretti a cedere le terre ai grandi proprietari, più attenti a increme
Sotto la guida di Neri fu avviata dal 1771 la progressiva ristrutturazione dei governi provinciali, – Volterra e Arezzo nel 1774, Livorno, Firenze nel 1782. Essa concedeva larghe autonomie ai consigli comunali e ai loro organi, Gonfaloniere e Priori, sorteggiati dagli elenchi dei possidenti. Abolite le antiche magistrature – come pure il Consiglio dei duecento e il Senato dei quarantotto a Firenze –, il controllo dei nuovi enti spettò a una Camera delle comunità alle dipendenze regie. Ma la soppressione delle antiche magistrature comportò anche il ridimensionamento del potere dei patriziati, a cominciare da quello fiorentino. Ne risultò potenziata l’equiparazione dei sudditi-cittadini di fronte alla legge, che ritroviamo anche in una delle principali riforme leopoldine, quella della giustizia criminale, culminata nella legge del 30 novembre 1786, che per la prima volta in Europa aboliva tortura e pena di morte, e che recepiva l’Illuminismo penale di Cesare Beccaria.
Mitezza, personalità e proporzionalità delle pene erano temi ricorrenti dell’umanizzazione del diritto a partire da Montesquieu e Thomasius. Ma a innovare i contenuti della riforma erano soprattutto l’impianto garantista ancorato alla superiorità della legge rispetto al giudice, la pubblicità del processo, l’attenuazione della contumacia e del valore probatorio della confessione, il contenimento della carcerazione preventiva, il divieto delle confische e la limitazione dei giuramenti. Se la Leopoldina non appare pienamente matura sotto il profilo tecnico della codificazione, la divaricazione dall’antico regime è netta, come mostra la scelta di un dispositivo a soggetto unico, la depenalizzazione di molti reati e la semplificazione di norme e procedure, che la avvicinano – e con lei tutta l’opera di Pietro Leopoldo – all’avvento dello ‘Stato procedurale’ continentale. I materiali preparatori evidenziano come «il merito dell’iniziativa spetti unicamente» al granduca (Da Passano, 1988, p. 12), e rispecchiano una riflessione sugli esiti migliori del riformismo giuridico coevo, dal Dei delitti e delle pene di Beccaria alla Théorie des loix criminelles di Jacques-Pierre Brissot de Warville (1780), ai volumi della sua Bibliothèque philosophique du législateur (1782-1785), presenti nella biblioteca del principe insieme ai testi di Montesquieu e John Locke, scelti come letture per i figli.
La riforma criminale sfociò in una sostanziale separazione tra le funzioni di giustizia e di polizia. Nel maggio 1777 nasceva il Supremo tribunale di giustizia, preposto alla supervisione della giurisdizione penale nel Paese e composto di giudici di nomina regia. L’abolizione dell’antica magistratura degli Otto di guardia (1777) aprì la via all’erezione del Buongoverno (1784) dotato di vasti poteri di controllo. Quattro commissari laureati disciplinarono i quartieri urbani della capitale, comprendendo nei propri compiti anche funzioni igienico-sanitarie e di assistenza. In seguito i poteri repressivi di polizia si ampliarono, con largo uso della procedura per direttissima (‘processo economico’), che comportava l’irrogazione di pene severe e senza possibilità di appello da parte dei commissari. Si trattava di misure destinate, insieme al ricorso del principe alle delazioni, ad accrescere lo scontento della popolazione. Del malcontento si fece portavoce Gianni che di fronte all’ulteriore potenziamento del Buongoverno lamentò che esso costituisse, ormai, nel 1789, «un canale di arbitrio legalizzato» (Mascilli Migliorini, 1997, p. 393). Interprete della «possibile umana felicità nell’onesto esercizio della libertà civile» (Zimmermann, 1901, p. 125), ma tutore severo della morale pubblica, Pietro Leopoldo si mostrò aggiornato sul dibattito internazionale in materia, dal Traité de la police di Nicolas de La Mare ai regolamenti parigini di polizia, ai noti contatti con Joseph von Sonnenfels, oppositore della tortura e lucido esponente dell’Aufklärung austriaca.
Sin dai primi anni di regno la riorganizzazione fiscale comportò una duplice sfida con nobiltà e clero. Pietro Leopoldo non amò la nobiltà toscana, preferendo circondarsi di capaci funzionari ‘borghesi’. Le riforme comunali e giudiziarie favorirono la razionalizzazione degli uffici, dove i ranghi ridotti degli impiegati furono sottoposti a un rigoroso controllo disciplinare. Formati da esperti, i dipartimenti accolsero meno patrizi e nobili di un tempo e videro la costituzione di un funzionariato relativamente moderno, capace di progressione di carriera in base al merito e alle competenze. La Relazione dei dipartimenti e degli impiegati del 1773, redatta dal granduca per proprio uso, fornisce una straordinaria visione dall’interno dei meccanismi dell’amministrazione e dei gruppi clientelari e politici che vi si confrontarono. Quanto al contrasto con la Chiesa, esso fu presente in tutta l’esperienza toscana di Pietro Leopoldo e coinvolse svariate componenti, dal giurisdizionalismo alle correnti del giansenismo francese e italiano, sino alla stessa disincantata e pessimistica coscienza religiosa del principe.